Questa sera ho deciso di prendermi un’ora di relax. Spalle poggiate al divano, scarpe sulla panca di fronte leggermente rialzate rispetto al bacino. Apro Facebook sul tablet e inizio a saltabeccare qua e là cercando distrattamente qualcosa di curioso e divertente. Finisco sul profilo di un tipo che conosco, noto professionista, amatissimo nel suo settore. Leggo un post in cui racconta un tentativo di furto ad opera di una persona extracomunitaria nel suo studio, sventato dall’imminente sopraggiungere di sé medesimo in versione machista. Il post si conclude con una nota di chiara matrice razzista, la più scontata: quelli del suo paese (traduco il senso) sono tutti così. I commenti sono una pioggia di insulti ultra razzisti. Decine di scritti – donne e uomini, la violenza espressiva è unanime – che propongono di bruciarli vivi, tagliargli le mani, rimandarli al loro paese, apostrofando i componenti della genia in questione con i peggiori epiteti. Scatta la curiosità giornalistica, vado sui loro profili, indago, cerco connessioni con gruppi politici. Sono persone che hanno relazioni affettive, amici, interessi e passioni. Umanità del tutto ordinaria, che però distilla quote di pesante razzismo dalla propria pagina Facebook. Sono le persone della porta accanto. A questo punto mi chiedo su che basi poggiare la speranza in un futuro migliore. Badate, non sarò certo io ad eludere problemi di ogni ordine e grado connessi all immigrazione. Sono innegabili. Tuttavia, mi rifiuterò sempre di far ricondurre il reato eventualmente commesso da un individuo alla sua razza. Non ne farò mai una questione di etnia. L’indagine antropologica finalizzata all’individuazione di una razza migliore di altre la lascio ai colonnelli nazisti
Lorenzo Podestà
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