Mi chiedo chi possa dirsi felice. Questa notte riflettevo su una questione che mi pare centrale: esiste un’espressione di felicità della quale possiamo dichiararci artefici e soprattutto appagati? Secondo me no, il contesto esterno alla nostra vita ci condiziona al punto da compromettere la nostra felicità. Si è felici per il tempo utile a godere una qualsivoglia estemporanea gioia: quando il flash di un evento entusiasmante si spegne, si torna nella dimensione mentale in cui non può esistere – a mio umile parere – la felicità. All’essere vivente consapevole del proprio tempo (dunque non meramente respirante) non è dato essere felice, in questo mondo. La gioia effimera che deriva da una bella notizia di rilevanza individuale si misura necessariamente con il contesto pubblico in cui essa si sviluppa, inevitabilmente compromesso dalle tremende notizie che l’ambiente circostante ci riflette addosso. Come possiamo essere felici se abbiamo la consapevolezza che in qualunque altrove sono dilagate contestualmente sofferenza e turbamento? Me lo chiedo. Lo scudo di pietra dietro cui si celano talune persone inspiegabilmente serene mi sorprende ogni giorno di più. Siamo felici perché la nostra vita va benissimo, abbiamo adorabili familiari, un sacco di amici e i quattrini che ci servono? Bene, però là fuori c’è un mondo che soffre. E non basta ritenere di non avere specifiche responsabilità, che poco o nulla dobbiamo rimproverarci, che siamo in pace con noi stessi perché recitiamo salmi, facciamo meditazione o decliniamo il Nam myoho renge kyo tutti i giorni. La sofferenza esiste ugualmente, ci prescinde. Dunque non possiamo essere felici, l’infinito è inarrivabile
Lorenzo Podestà
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