Ieri parlavo con un caro amico di una possibile alternativa all’economia capitalista. Una domanda che mi pongo fin dai tempi del G8 di Genova, quando in manifestazione fermavo gente in strada per chiedere: ok, siamo qui in corteo, è giusto, ma se domani mattina trovassimo fabbriche, negozi e uffici chiusi, cosa faremmo, come pagheremmo affitti e bollette? Cosa possiamo offrire, noi? Questi mi guardavano più che perplessi, i più tiravano dritto mostrandomi espressioni del viso che non saprei qui descrivere, qualcuno però mi rispondeva. In particolare una ragazza replicò avvicinandosi all’orecchio nel frastuono di voci e tamburi: non so se esista un’alternativa a questo sistema, ma tutto ciò produce sperequazione sociali e catastrofi ambientali. Mi basta questo per manifestare. Non ricordo esattamente le parole, ma il loro senso era chiaramente questo. Sono passati 13 anni, cerco ancora una risposta. Ieri parlavo di questo con il mio prezioso amico. Io ho avanzato l’ipotesi che l’uscita a sinistra dal capitalismo infarcito di contraddizioni e abiure di sé stesso (aiuti pubblici alle banche, altro che mercato!) possa essere la decrescita teorizzata da Latouche, ma lui – il mio complice amico di turbe mentali ferragostane – non si è rivelato molto d’accordo, giacché – mi ha detto non senza ironia – si teorizza sempre la decrescita degli altri, tentando in ogni modo di mantenere per sé stessi lo stesso tenore. Latouche compreso, che trascorre l’estate alle 5 Terre. Allora il bilancio partecipativo, ho rilanciato io. Democratico, popolare, pratico. Non qui, non ora, ha ribattuto lui. Forse il sistema può funzionare là dove vi sia la volontà popolo di determinare il proprio destino. Qui no. Gli italiani si affidano allo stregone di turno, meglio se particolarmente cialtrone. Ieri Berlusconi, oggi Renzi, sono un po’ la stessa cosa. A quel punto mi sono arreso, il discorso ha virato su temi diversi davanti ad un caffè. Non se ne esce.
Lorenzo Podestà
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