Di Quarto Oggiaro avevo letto l’ultima volta seduto sul furgone di una ditta per cui lavoravo intorno ai 18 anni. Era un rito. Arrivavo alla stazione di Lavagna carico di scatole da spedire, la mia ora all’aperto dentro una cupa giornata in fabbrica. Dopo aver sbrigato le pratiche con l’addetto delle ferrovie mi chiudevo dentro e leggevo storie che parlavano di una Milano culla d’emozioni. Non che i protagonisti di quelle vicende, tamarri o paninari che fossero, li avvertissi in alcun modo affini, tutt’altro. Ma tant’è. Milano per molti di noi era il tuffo dallo scoglio più alto, l’acqua salata che entra nel naso e ti sfrigola il cervello di bollicine. Un flash. Le storie di Quarto Oggiaro in bianco e nero le ricordo con tenerezza, come pure i pensieri di allora. Oggi ho cambiato letture ma il mio rapporto con Milano é sempre quello, la città che più d’ogni altra in Italia mi dà energia è ancora questa nonostante tutto. Anche ora, che in un albergo tra Quarto Oggiaro e Rho sto trascorrendo quest’inizio mattinata sotto la pioggia. Oltre la finestra vedo i padiglioni dell’Expo che sta per essere inaugurata a due passi da qui. L’impressione è che tutto sia irrimediabilmente in ritardo, che quest’area a Nord Ovest della città sia la meno indicata per fare da vetrina all’Italia delle tanto decantate eccellenze, termine ormai sequestrato dalla retorica del business. Cantieri aperti senza gente che vi lavori in mezzo a brutti negozi di periferia, recinzioni in plastica rossa che delimitano aiuole senza verde, rimorchi di camion con le ruote sgonfie lungo le strade, lugubri fabbriche abbandonate con i tetti sfondati. E mancano tre giorni. Mi chiedo se l’Italia avesse bisogno di questa pasticciata kermesse, se ne avesse bisogno Milano. O se siano piuttosto i grandi speculatori a beneficiarne, coloro che hanno venduto terreni, costruito volumi, acquisito appalti. Mi chiedo se sarebbe stato meglio aprire cascine, cantine, botteghe in tutta Italia e fare un’Expo lunga mille km senza l’abbraccio mortale delle multinazionali. Troppo tardi. Show must go on. O meglio, show must go on?
Lorenzo Podestà
Caro Direttore,
bello il tuo pezzo, intriso di malinconica e sincera autenticità che in larga parte condivido.
La realtà, purtroppo, è quella che è, ne vale la pena – secondo me – di indugiare o recriminare più di tanto. Avessi qualche anno in meno sul groppone, sicuramente la penserei, sostanzialmente, come te, così come la pensavo nei miei, ahimè, verdi anni nei quali “l’ottimismo della volontà, prevaleva sul pessimismo della ragione”…
Ammiro, comunque, la tua tenace opposizione all’attuale “sistema” oggi più che mai “conservativo” in buona parte rappresentato dall’attuale EXPO’ che, se non altro, ha per tema il nutrimento del pianeta e la ricerca delle possibili soluzioni attraverso la creazione dei famosi 9 cluster, frutto della elaborazione del vecchio Politecnico dal quale anch’io provengo che ricordo con nostalgia e che mi rende, forse, troppo indulgente…
Ciò detto, trovo davvero strano che il tuo pezzo non abbia provocato nessun commento.
Ciao.