Alessandro Ravera, 46 anni, guida turistica. Una laurea in architettura con indirizzo urbanistica e un passato da tipico lavoratore atipico: professore a contratto all’università, redattore free lance per diverse testate su diversi argomenti (dall’economia per Il Sole 24 Ore alla storia dell’arte per Oggi), per qualche tempo ho persino fatto ciò cui avevo studiato, dedicandomi al campo degli studi urbani. Dal momento della sua adozione nel 2011, ho seguito le vicissitudini del PUC genovese.
Liguria e mobilità, nel dibattito gronda e terzo valico la fanno da padrone ma la Liguria non è solo Genova. Cosa ne pensi?
Secondo l’Atlante statistico territoriale delle infrastrutture edito dall’Istat nel 2008, l’incidenza percentuale delle infrastrutture stradali e ferroviarie in Liguria era superiore a quella di tutte le altre regioni italiane (a volte del doppio). Estremizzando, si potrebbe persino dire che in una regione dall’identità “sfumata” come la nostra, la rete del trasporto pubblico finisce con l’esserne uno degli elementi costitutivi principali; d’altra parte, la stessa Regione Liguria ricordava come “la percentuale delle persone che usano il treno per recarsi al lavoro o a scuola è più che il doppio della media nazionale”.
A fronte di queste premesse, che farebbero pensare ad un impegno massiccio dell’ente regionale a sostegno del trasporto pubblico ed in particolare di quello ferroviario, secondo il rapporto Pendolaria di Legambiente tra il 2003 e il 2014 le spese regionali per le infrastrutture sono state ripartite in ragione del 92,4% per le strade e 7,6% per le ferrovie, finendo per rendere spesso l’utilizzo del mezzo privato la sola opzione percorribile per spostarsi.
Ci troviamo perciò in una situazione paradossale: l’importanza del trasporto pubblico è riconosciuta unanimemente, la stessa orografia del territorio impone particolari economie (con il poco spazio che abbiamo, sarebbe meglio “concentrare” piuttosto che “disperdere”), ma l’efficacia degli sforzi sembra andare in una direzione diametralmente opposta.
Scendendo da una scala territoriale a quella urbana, la vicenda della gronda ne è un ottimo esempio: i suoi sostenitori portano spesso dati – peraltro contestati – sull’aumento della congestione del traffico nel ponente negli ultimi anni. Mentre bisognerebbe domandarsi com’è possibile che una città che è scesa da 816.872 abitanti censiti nel 1971 a 586.180 nel 2011 veda il traffico aumentare piuttosto che diminuire, si propone forse un po’ troppo semplicisticamente una nuova “strada” (in realtà un lunghissimo tunnel le cui criticità, soprattutto in termini urbanistici, sono largamente sottovalutate), senza domandarsi se la causa non sia da ricercarsi nello stesso disegno della città degli ultimi anni (creazione indiscriminata di “magneti” di traffico, dislocazione “terroristica” di polarità commerciali incentrate sull’uso del mezzo privato, una certa indifferenza della progettualità urbana verso le reali condizioni di sofferenza del trasporto pubblico), di fronte al quale la Gronda finisce per incidere in un modo assolutamente aleatorio.
È inevitabile pensare che queste scelte siano state dettate da una politica che procede più per opposizione di “narrazioni” (TAV-NoTAV; pendolari-automobilisti; “ferro”-”gomma”) che per analisi obiettiva dei dati: viene quasi l’impressione che a prevalere sia un’ottica del “costruire tanto per costruire” culminante nel progetto definito“irrinunciabile” per il Terzo Valico, caratterizzato da una scarsissima chiarezza negli intenti (Alta velocità? Alta capacità? Merci? Passeggeri?) cui corrisponde una certa vaghezza nella progettazione delle interfacce con cui dovrebbe operare: i tre grattacieli approvati con variante proprio nell’area in cui il Terzo Valico dovrebbe raccordarsi con Calata Bettolo, in fase di profonda – e costosa – ristrutturazione ne sono un perfetto esempio; un progetto più convincente sarebbe probabilmente intervenuto nella zona pianeggiante di congestione tra Pavia e Rogoredo invece di partire dal più difficile – e costoso – Appennino.
La riconsiderazione complessiva del trasporto pubblico in Liguria sembra essere davvero necessaria, sia per quel che riguardo le linee su gomma – collegamento fondamentale per tutto l’entroterra – sia per il rapporto tra Regione e il polimorfo complesso delle ferrovie. In quest’ultimo caso, spesso una più attenta organizzazione potrebbe portare immediatamente effetti positivi; mentre gli interventi sulla rete più urgenti sono forse quelli nelle Riviere, quella di ponente in particolare.
Liguria e produttività. Parlare di PIL per una Regione di 1.500.000 di abitanti con percentuale elevata di popolazione “anziana” è un po’ come parlare delle storia dei polli di Trilussa e non è a mio parere un parametro di valutazione adeguato. Eppure esistono realtà che sono eccellenze internazionali: ci potrebbero essere reali condizioni di crescita?
Parlare di PIL in una regione in cui, molto a grandi linee, ogni 10 abitanti 3 hanno più di 65 anni (e solo 1 meno di 18) non è effettivamente un parametro adeguato, anche se guardare il PIL assieme ad altri parametri svela un panorama inquietante: ad esempio secondo l’Agenzia delle Entrate, il valore degli immobili residenziali in Liguria nel 2012 era più di 8 volte superiore a quello del PIL regionale, mentre da parte sua l’Istat – per lo stesso 2012 – mostrava la Liguria terza per incidenza della spesa pensionistica sul PIL (e prima per spesa pensionistica pro capite). In altre parole, il futuro della regione sembrerebbe poggiare sulla tenuta del mercato immobiliare e sulla salute dell’INPS: oggettivamente non si tratta di un viatico esaltante. Ma c’è un dato forse ancora peggiore: tra il 2002 e il 2012 l’indice di concentrazione di Gini sui redditi netti delle famiglie liguri (la forbice tra ricchi e poveri) è aumentato di valore: è l’unico caso in tutta l’Italia centro settentrionale, oltre che la seconda peggiore performance dopo la Basilicata; sempre nel 2012 l’indice Gini sui redditi netti era il terzo peggiore d’Italia dopo quelli di Campania e Sicilia, spia di una situazione effettivamente difficile.
Non ho trovato il dato sulla distribuzione della ricchezza, ma sapendo da Bankitalia che a livello italiano il risparmio delle famiglie italiane è investito per più del 60% in immobili, non mi sembrerebbe troppo azzardato pensare che il dato ligure sia ancora più elevato: in pratica, la Liguria è una regione con potenziali fortissime tensioni sociali, finora “calmierate” un po’ dalle pensioni, un po’ dagli immobili. Ho il timore che si riveli un fragile castello di carte, per di più da un momento all’altro. Ma naturalmente sono uno di quelli che a volte la stampa locale definisce “profeti di sventure”, e sarei felicissimo di sbagliarmi.
Che fare? A proposito di profeti, nel Vangelo di Luca (quello che Lenin e Cernysevsky avevano probabilmente in mente nell’intitolare i loro libri) San Gio Batta invita più o meno testualmente chi ha due tuniche a donarne una a chi non ne ha, chi riscuote le tasse a non essere esoso più del giusto e chi amministra la sicurezza ad accontentarsi di quello che ha senza estorcere nulla ai suoi sottoposti. Dopo duemila anni, un programma fondato su maggiore equità sociale, riduzione della pressione fiscale e lotta alla corruzione non sembrerebbe poi così obsoleto. Ma al di là delle linee generali, quello a cui non può fare altro che puntare la nostra regione sono tutte quelle produzioni e quelle attività in grado di fornire un alto valore aggiunto. Ai tempi di Colombo, i lavoratori della seta erano forse tre o quattro volte di più rispetto a quelli della lana, e il commercio della seta era strategicamente così importante che non è un caso che alcune delle più importanti famiglie di età moderna abbiano cominciato proprio da quello.
Il vero problema è che al giorno d’oggi, il valore aggiunto consiste nella ricerca: la Liguria era partita bene, anzi benissimo; per quel che vale, ricordo con orgoglio che l’inventore del Moplen aveva frequentato il mio stesso liceo (anche se non ricordo nemmeno una minuscola targa che lo ricordi). Ma il fatto che a Sant’Ilario, seminascosti dalla vegetazione, ci siano i resti di quella che è stata la prima centrale solare al mondo (in un terreno, per di più, che oggi sembra far gola alla speculazione immobiliare) è abbastanza sintomatico delle condizioni della nostra regione. La stessa vicenda degli Erzelli, parco tecnologico difficile da raggiungere (un po’ come pensare un’utilitaria da città difficile da parcheggiare) dà l’idea di un panorama piuttosto sclerotizzato.
Parliamo un po’ di edilizia e di speculazioni. Dissesto idrogeologico e alluvioni, combatterli può essere paradossalmente una risorsa come ho chiesto ad altri candidati?
L’edilizia, soprattutto quella abitativa, è stata considerata per anni “il volano dell’economia”: lo sosteneva persino il Piano di Rinascita Democratica di Gelli negli ormai lontanissimi anni ’80. Ancora oggi, pur se è facile verificare come le cose non stiano proprio così, questa convinzione è davvero durissima a morire; se poi pensiamo che nel piano del venerabile Licio il concetto era strettamente connesso alla creazione di infrastrutture destinate a velocizzare una mobilità soprattutto privata, corre pure qualche brivido lungo la schiena.
Fatto sta che più degli appelli al buon senso, oggi come oggi sta sortendo un migliore effetto il “ticchettio” degli indici finanziari, e cosiddetto “partito del cemento” non raccoglie più l’unanime consenso di una volta: forse si è finalmente capito che la regione ha più bisogno di manutenzione che di inaugurazioni.
Il problema è che in Liguria la speculazione edilizia si è accanita su un territorio fragile già da troppi anni: il termine – forse un po’ ingeneroso – di “rapallizzazione” fa la sua comparsa nella lingua italiana poco dopo la terribile accusa di Montale che terminava un suo saggio del 1968 con le parole “resto fedele ad un paesaggio che vedo solo in sogno, perché i suoi stessi abitanti lo hanno reso irriconoscibile”; il racconto di Italo Calvino dedicato all’infelice periplo morale di un giovane intellettuale di fronte alla cementificazione del proprio borgo natale è ancora più vecchio. Per oltre cinquant’anni il territorio è stato visto come una sorta di bancomat a cui tutti i soggetti, pubblici o privati, avevano accesso ed è andata a finire che oggi, per un certa ironia del destino, tanto il nostro territorio quanto le nostre tasche sono profondamente dissestati.
Non è perciò così tanto paradossale che la salvaguardia del territorio (e del paesaggio, che è cosa un po’ diversa) possa diventare una risorsa: in primo luogo perché, bene o male, si tratta dello spazio in cui viviamo, e che “vendiamo” nel caso del turismo, secondariamente perché sarebbe possibile attraverso i fondi a disposizione della Regione avviare un programma di interventi di carattere anticiclico rispetto all’andamento dell’economia. Il paradosso, neppure eccessivo, consisterebbe semmai nel fatto che questo tipo di politica rivolterebbe da capo a piedi il presunto “rooseveltismo” fino a questo momento imperante nella logica delle grandi opere. Ma penso che se si cominciassero a guardare i dati in modo più realistico, la scelta apparirebbe del tutto ovvia.
Turismo e ripresa industriale, sono compatibili?
Parafrasando Cerofolini, non siamo una regione “di camerieri” e difficilmente lo diventeremo; e lo dico da operatore del settore. Tuttavia, sotto moltissimi aspetti il settore turistico è quello che forse promette maggiori margini di sviluppo anche nel breve periodo, a patto di dimostrarsi in grado di interpretare i mutamenti economici nazionali ed internazionali. In sé e per sé una corretta pianificazione economico-territoriale non dovrebbe creare particolari attriti tra il turismo e gli altri settori: se l’economia può essere vista come la più efficace allocazione delle risorse scarse, anche la pianificazione – in una regione orograficamente particolare come la nostra – avrebbe dovuto seguire la stessa regola. Diciamo che la preponderanza dell’edilizia negli ultimi trent’anni ha un po’ stravolto la situazione (aggravando, tra l’altro, la complessa dismissione dell’industria pesante), ma la più decisa restrizione dei margini operativi risale davvero all’ultimo decennio e si dovrebbe essere ancora in tempo per rimediare.
Andando a controllare i dati statistici, secondo i dati dell’osservatorio regionale sul turismo (2012), i flussi turistici che fanno capo alla Liguria danno lavoro a circa 29.000 lavoratori a tempo pieno equivalenti, pari a circa il 4,5% della forza di lavoro della regione, generando al suo interno un PIL di 2.267.000.000 € , a sua volta equivalente a circa il 5% del PIL regionale. I numeri complessivi – dentro e fuori regione – parlano invece di 83.000 unità di lavoro e di 7 miliardi di euro di PIL connessi al turismo in Liguria; un confronto sulle percentuali nazionali (8% in termini di addetti e 10% in termini di PIL) evidenzia poi una situazione di relativo “sottoutilizzo” della risorsa, peraltro più volte sottolineato dalla maggior parte dei commentatori.
In termini di trend, pur nella difficoltà di interpretazione dei dati a disposizione, il calo nei posti di lavoro regionali del comparto “servizi” sembra testimoniare chiaramente una sofferenza di tutto il settore, allo stesso modo del calo delle presenze, soprattutto nazionali, significativo di un mutamento via via sempre più decisivo dei flussi interessanti la regione, tradizionalmente orientata verso un “turismo di prossimità” (da Lombardia o Piemonte) generalmente stagionale e balneare.
Il turismo in Liguria è infatti ancora concepito secondo l’ottica degli anni ’60: un turismo nazionale, balneare e appoggiato principalmente sulla mobilità privata; i cambiamenti radicali degli ultimi decenni (dall’ingresso dei grandi tour operator internazionali alla comparsa di un turismo individuale/monofamiliare essenzialmente incentrato sull’uso di internet) pur se recepiti non sono mai stati davvero accettati. Gli incredibili fenomeni di congestione e le disastrose condizioni di manutenzione che interessano le 5 Terre (ormai diventate il luogo di maggior richiamo della regione) sono il risultato di un atteggiamento che tende a disinteressarsi all’analisi delle dinamiche in atto, senza troppo preoccuparsi dell’effettiva capacità dei territori o delle infrastrutture di “reggere” ai nuovi flussi, spesso demandando ai soli enti locali l’onere organizzativo e limitando la Regione al semplice ruolo di “supersindaco”, incaricato di distribuire fondi e finanziamenti ma senza alcun concreto ruolo di regia.
Al contrario, la Regione potrebbe avere in questo senso un ruolo fondamentale, da una parte migliorando il comparto del trasporto locale (le difficoltà dei locali sono in fondo le stesse dei turisti) dall’altro orientando il complesso dell’offerta di accoglienza: la peculiarità della Liguria di poter offrire all’interno di uno stesso pacchetto turismo “balneare”, turismo “culturale” e turismo “verde”, fino a oggi considerati come rigorosamente separati, è invece proprio quello che oggi caratterizza le mete turistiche di maggior successo.
Se ti dico Pe Zêna e pe Sàn Zòrzo avresti voglia di ricontestualizzarmelo per questa occasione? non potevo non fare con te un collegamento con la “Storia Patria”….
Nella Storia della Liguria edita da Laterza qualche anno fa a cura di Giovanni Assereto e Marco Doria (sì, proprio lui) si dice che l’identità regionale “oscilla tra una precocissima definizione e un’indefinitezza che a tutt’oggi non può dirsi superata”. In effetti la Liguria di antico regime era costituita da una complessa (Marx avrebbe usato l’aggettivo “variopinta”) rete di rapporti socio economici, andata in frantumi all’inizio dell’Ottocento e mai più ricostruita nella sua interezza: oggi ci troviamo di fronte a profondissime dicotomie (costa-entroterra; capoluogo-riviere; Levante-Ponente…) che si ripercuotono praticamente in ogni settore e a tutte le scale.
Eppure, mai come oggi avremmo bisogno di un qualche sentimento identitario per venire a capo di problematiche che necessitano di soluzioni che devono risultare il più possibile condivise; la frammentazione del panorama ligure – in particolare di quello politico – ha da una parte finito per rendere impossibile l’innescarsi di “circoli virtuosi” tra un comune e l’altro, dall’altro ha legittimato una sorta di “saccheggio” (del territorio, del risparmio… in un certo senso, persino della stessa storia: già nel XVIII secolo Gorani scriveva “Di tutte le repubbliche mercantili, Genova è la più invidiata, la più denigrata e la meno conosciuta”) che ha lasciato la regione nelle condizioni in cui si trova adesso.
Prendendo le parole di Braudel, scritte per Genova ma estensibili all’intera Liguria, “nel corso della sua storia, per dieci volte ha cambiato direzione, accettando ogni volta la metamorfosi necessaria (…) è il destino di questo corpo fragile, sismografo ultrasensibile, che si agita o che viene agitato dal vasto mondo che lo circonda. Di volta in volta mostro d’intelligenza o di tenacia, è condannata ad impadronirsi del mondo o a non esser più”. Per quel che mi riguarda, non farò parte della generazione che ha perso tutto questo.
In breve, perché si dovrebbe votare M5S alle prossime regionali?
Perché ci stiamo provando. Forse non sono le parole da cavaliere Jedi che piacerebbero a Beppe, ma ci stiamo provando sul serio. Provando a coinvolgere i cittadini in tutte quelle decisioni che fino ad oggi sono loro passate sopra; provando a diffondere quelle informazioni che fino ad oggi sono state accantonate, provando a costruire una regione che fino ad oggi è sempre stata considerata tutt’al più una merce di scambio, tenuta buona dai titoloni che magnificavano “la squadra dei liguri al governo”. Un vecchio slogan dei Piraten recitava “noi siamo quelli che hanno domande, ma siete voi quelli che hanno le risposte”. Ecco, mettere i cittadini nelle condizioni di dare delle risposte è qualcosa che la politica (e forse anche la società) ha da qualche tempo smesso di fare; orma lo chiamano “populismo”.
Intervista a cura di Piergiorgio Papetti
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