Le tematiche sollevate da Clifford G. Christians toccano argomenti fondamentali nella storia del giornalismo. Sono le grandi direttrici sulle quali si sviluppano ragionamenti pressoché inesauribili giacché – mutando il contesto sociale, politico ed economico nei quali si innestano – è pressoché impossibile trovare punti di contiguità. Fare giornalismo a Pechino non è come svolgere la professione a New York, cercare notizie in Corea del Nord non è come incardinare inchieste nel Regno Unito. L’etica dell’informazione, questa la prima osservazione, è dunque condizionata dal contesto in cui di opera: al di là dei principi deontologici e dei migliori auspici professionali esiste un piano reale dal quale non si può prescindere. Altro argomento centrale nelle riflessioni sollevate da Christians è la figura del giornalista, su cui pendono alcuni equivoci che a mio parere è giusto sciogliere. Nel processo informativo è necessario considerare che il potere decisionale è in capo all’editore, non al giornalista. E’ l’imprenditore che sovente vincola la pubblicazione di notizie a logiche che poco o nulla hanno a che fare con i codici deontologici. Egli agisce secondo criteri meramente economici che talvolta (per non dire spesso) subordinano la correttezza informativa alle esigenze economiche dell’impresa. Specialmente in piccole aziende, se un candidato sindaco investe denaro per acquistare spazi promozionali, l’editore imporrà ai giornalisti un comportamento che tuteli l’uomo della provvidenza, con buona pace di tutte le norme contenute in carte e regolamenti professionali. E’ dunque ingiusto attribuire esclusivamente al giornalista la responsabilità di un’informazione parziale o peggio orientata. Quand’anche una redazione possa fruire dei servigi dei migliori reporter in circolazione, sarà sempre e comunque l’editore a stabilire – talvolta avvalendosi di figure intermedie in redazione – ciò che va in pagina e ciò che resta fuori. Intendiamoci, esistono giornalisti che si pongono in correità con il sistema, che rinunciano a priori a combattere con l’imprenditore una battaglia per la libertà di stampa. La precarizzazione nel settore non aiuta, se si arriva all’aut-aut chi deve chinare il capo (pena licenziamento) è comunque il giornalista. In sintesi si può affermare dunque che l’etica del mondo dell’informazione ha molti nemici, primo tra tutti – paradossalmente – chi è il primo attore del processo divulgativo: l’editore. Il vuoto è anche normativo. Se un giornalista può definirsi tale dopo un lungo percorso di apprendistato durante il quale matura (dovrebbe) piena coscienza di cosa voglia dire esercitare la delicata professione, ciò non può dirsi degli editori. Un facoltoso grossista di banane abituato a muoversi nel paludoso mondo degli affari internazionali potrebbe dall’oggi al domani avviare un’impresa editoriale e tenere in scacco un manipolo di valenti giornalisti imponendo la propria scorrettissima linea editoriale. Questo accade oggi non solo in Italia. Un altro argomento sollevato da Clifford G. Christians è la missione della stampa. Egli ritiene che essa dovrebbe tentare di contenere i conflitti dentro un perimetro dialettico, dare priorità alla pace, sostenere la dignità, approfondire i principi della giustizia sociale, della nonviolenza, della verità. Tutto questo, secondo l’autore, è parte del giornalismo etico. Mi trovo d’accordo solo sull’ultima parte del ragionamento, ossia la ricerca incessante della verità ovunque si trovi. Meno mi convince il ruolo dell’informazione intesa come agente moralizzatore per costruire un mondo migliore. Singole individualità, famiglia, scuola, istituzioni, associazionismo, politica: sono loro a dover trovare gli strumenti di equità e civile convivenza interclassista e interrazziale. Il giornalismo deve piuttosto individuare chi, come, dove, quando e perché – esercitando le proprie peculiarità che sono diverse da quelle giudiziarie – deroghi dalle regole di convivenza che la società si è data. Non è sufficiente cercare notizie come segugi, è necessario ma non basta. Occorre interpretare i fatti offrendone una chiave di lettura a chi legga o ascolti, evitando di trincerarsi dietro un comodo “feticismo cronachistico” che è solo parte dell’opzione informativa. Infine la fruizione dei mezzi di informazione. Con una felice intuizione qualcuno ha sollevato il tema del digital divide, nuova frontiera della discriminazione comunicativa. Appare chiaro che una piena democrazia non possa prescindere dalla piena accessibilità alle notizie che viaggiano in rete. E’ compito della politica abbattere tali nuove frontiere, ancora una volta il giornalismo deve vigilare che questo accada, incalzando con correttezza e determinazione chi debba garantire pieno accesso alla rete, un progetto attorno al quale ruotano ingenti risorse comunitarie che non sempre finiscono in buone mani. Senza dimenticare il ruolo che la società mondiale – intesa come l’insieme di cittadinanza attiva – deve svolgere per tutelare la propria libertà, un bene che troppe volte si ritiene erroneamente scontato. L’esercizio di una delega infinita è pericoloso. Ancor più oggi, tempo in cui i mezzi di comunicazione tutt’altro che etici orientano opinioni e spostano voti.
Lorenzo Podestà
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