Conoscevo Giangi Ferrera in quella dimensione di formale confidenza che mai evolve in pura amicizia. É stato descritto come un personaggio, lo era davvero. La prima volta che gli rivolsi la parola fu nella redazione chiavarese del Secolo XlX attorno ad un tavolo. Avevamo occupato i locali facendoci aprire il portoncino con una scusa, dopo aver guadagnato il piano del sontuoso palazzo di via Nino Bixio in silenzio per non farci sorprendere dal portiere. Entrammo in quindici, forse venti. Alla testa una manciata di bambini a garanzia del nostro intercedere pacifico, nelle more di un’azione sindacale per difendere il nostro post di lavoro minacciato da un’invasiva ristrutturazione aziendale. Giangi era alla sua scrivania, come altri giornalisti. Certo non ci aspettava. Spiegammo al direttore le ragioni del nostro fare e credo ricevemmo sincera solidarietà. Con un’occhiata tra il capo redazione e Ferrera fu subito chiaro che a lui toccasse raccogliere le nostre argomentazioni. Parlammo una mezz’ora dentro una stanzetta, poi ce ne andammo scusandoci per l’accaduto. Il giorno dopo nella pagina del Levante uscì un pezzo bellissimo, che magistralmente teneva assieme la spigolosa grammatica sindacale con la levità di un’azione decisamente maldestra e per certi aspetti comica. Da quel giorno iniziammo a salutarci. Quando iniziai a fare il giornalista ci incontrammo spesso durante le conferenze stampa. Con una forma di irresistibile snobismo alimentato dalla personale interpretazione di un paio di consonanti e dall’abitudine di indossare camicie color pastello aperte fino allo sterno, si presentava ogni volta al tavolo senza taccuino chiedendo agli organizzatori qualche foglio come fosse scontato e perfino dovuto. Dopo cinque minuti di ascolto gli sarebbe bastato, inutile indugiare oltre. Mal tollerava ulteriori domande ritenute ridondanti poste dai colleghi, per lui era sufficiente quanto detto fino a quel momento. Credo che l’architettura dei pezzi fosse già lì nella sua mente mentre gli interlocutori stavano ancora parlando, i pochi appunti scritti in bella grafia ne avrebbero scandito il ritmo narrativo sul Secolo. Una volta replicò irritato a una mia domanda non ricordo posta a chi e a margine di quale argomento. Risposi piccato se mi consentisse di approfondire l’argomento lasciandomi parlare, che non toccasse a lui dettare i tempi della conferenza stampa. Ma finì lì, riprendemmo a salutarci con cordialità e senza alcuna ipocrisia. Ultimamente lo vedevo solo, troppo solo, seduto al Caffè Defilla. Al di là della strada la sua Jaguar amaranto. Quando gli uomini sono soli sono un po’ come Giangi, la compagnia di un drink portato alle labbra dietro il fumo di una Galouise già racconta la fine. Ho pensato più di una volta di fermarmi, di sedermi. Di condividere quella solitudine anche un po’ mia. Invece ho tirato sempre dritto per pudore, per orgoglio, per stupidità. Ciao Giangi.
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