Trovo che pubblicare il nome e la foto di un minore morto sia un errore. In passato mi accadde di farlo, sbagliando. Lo scrivo in relazione alla Carta di Treviso, che tutela, nell’esercizio della pratica giornalistica, il minore, al fine di non comprometterne – cito testualmente – l’armonioso sviluppo psichico. In questi casi la deontologia impone l’omissione dei nomi (e foto) di vittime ed eventualmente accusati, sempre minori. Al giornalismo è quindi riconosciuto un ruolo –… peraltro accolto dall’Ordine dei giornalisti che ha sottoscritto il documento – nella costruzione di una società che rispetti appieno l’immagine di bambini e adolescenti. Si potrebbe discutere, ma qui il punto non è questo. Secondo alcune interpretazioni tale cautela deontologica, l’omissione dei nomi o di ogni altro riferimento che contribuisca a risalire all’identità dei minori, verrebbe meno se il minore fosse morto. Taluni sostengono a tutt’oggi che, essendo il minore appunto non più in vita, cada l’esigenza di comprometterne l’armonioso sviluppo psichico, prerogativa della Carta di Treviso. Mi pare una posizione insostenibile, non tanto e non solo per il cinismo che la alimenta, ma soprattutto perché non tutela chi invece vive ed è minore, per esempio un fratello/sorella della vittima (o anche dei colpevole di reato), il cui equilibrio mentale potrebbe essere gravemente compromesso se trascinato in vicende quantomeno pruriginose. A mio parere la Carta di Treviso andrebbe applicata sempre, indipendentemente se il minore sia in vita oppure no. La materia è controversa, perché nella febbrile corsa alla notizia è difficile per un editore omettere nomi e foto quando altre testate li pubblicano. Ma così dovrebbe essere. La verità è che anche in questo settore internet e il proliferare di testate on line e blog ha talvolta squarciato pratiche consolidate. Nella migliore delle ipotesi la Carta di Treviso resta un caposaldo deontologico cui orientare scelte giornalistiche prima che editoriali. Pochi possono chiamarsi fuori da responsabilità.
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