Secondo le definizioni maggiormente accreditate, le opinioni sono un’interpretazione individuale dei fatti in assenza di certezze assolute che possano spiegarne la loro certa natura. Si comprende immediatamente quanto stretto sia il rapporto tra opinioni e verità. Giacché esistono molteplici verità accettate nella società in cui esse si manifestano, appare chiaro quanto plurime e arbitrarie possano rivelarsi le opinioni. Una questione fondamentale per capire quanto il processo decisionale democratico e parlamentare – al momento probabilmente la migliore soluzione possibile per dare regole ad una comunità – sia viziato dalle opinioni, tutt’altro che certezze. L’attuale sistema legislativo appare vincolato alla capacità persuasiva di partiti o movimenti di attrarre l’interesse degli elettori: non vince chi esprima programmi strettamente vincolati alla verità (o almeno ad una delle verità), ma chi riesca a costruire opinioni nel corpo elettorale quanto più favorevoli possibile al proprio schieramento. Già Parmenide (6°-5° Secolo a.C.) non riteneva l’opinione espressione della negazione totale della verità, ma il tentativo di interpretarla offrendole una qualche possibilità di rappresentarla. Una sorta di “terza via” che ci è dato sperimentare nel tentativo di incontrarla, la verità. Un fatto è vero, non vero, o verosimile, in quando espressione di un’ipotesi interpretativa – detta opinione – che potrebbe in potenza coglierne l’essenza. Ma torniamo con un esempio al tema della verità ed alle varie faccettature che essa possa assumere. Un umo è condannato in sede giudiziaria perché le prove raccolte dalla magistratura inquirente portano il collegio giudicante a dichiarare colpevole l’imputato di omicidio. Egli sconterà la pena ritenuta congrua all’illecito commesso. Questa è la verità giudiziaria. Poniamo poi che dopo dieci anni, incalzato dalla propria coscienza forse perché in fin di vita, un uomo si presenti alla Polizia e confessi di aver ucciso lui, e non il pregiudicato finito dieci anni prima nelle patrie galere, la vittima. Questa è la verità storica, che confuta la verità giudiziaria espressione di una sentenza. Due verità contrapposte ma socialmente accettate. Ve ne sarebbero altre, ma non è questa la sede per approfondirle. Neppure la verità appare quindi il riferimento sicuro per esprimere un convinto consenso in favore di questa o quella parte politica, perché è possibile che tesi espresse pur onestamente in campagna elettorale – poniamo la migliore condizione con un impeto di irragionevole credito concesso alla classe dirigente parlamentare – possano rivelarsi errate in ragione per esempio dell’evoluzione della conoscenza scientifica. Neppure la verità può definirsi sempre certa, immaginiamo quanto possano essere fallaci consensi espressi sulla base di opinioni scaturite dalla capacità persuasiva di chi si contenda la vittoria nelle urne. Per queste ed altre ragioni appare irrinunciabile elevare la propria capacità critica in relazione all’offerta politica, nel tentativo di formarsi opinioni quanto più prossime ad una verità almeno sostanziale. Una verità frutto dell’individuale capacità di elaborare informazioni acquisite su network indipendenti, essendo spesso venuto meno il ruolo di mediazione che la Costituzione riconosce ai giornalisti/editori. Una congrua quota di relativismo – declinato in ogni sua forma – contribuirà a diffidare dalle verità assolute ammannite da qualunque dispensatore di incrollabili certezze. Non è il trionfo dello scetticismo, ma la mera sopravvivenza dello spirito critico
Lascia un commento
Devi essere connesso per pubblicare un commento.