Un tempo, nel ’68 e per tutti gli anni Settanta e almeno parte degli Ottanta, la classe lavoratrice aveva una propria chiara identificabilità. Esistevano chiese (i sindacati) e liturgie (scioperi, manifestazioni) che ne scandivano la vita. O di qua, con i padroni, o di là con PCI e CGIL. Poi vi era la sinistra extraparlamentare, ma questa è un’altra storia. Oggi non è più così, sono venuti meno gli stilemi della classe tradizionale. Ma non significa che gli attuali manifestanti contro il tecno capitalismo – dai no tav ai gilet gialli, dai fautori della decrescita alle masse di precari generati dalla globalizzazione – siano personaggi in cerca di autore (sindacato o partito) cui affidare il proprio destino. Questo fronte di contestatori nato sulle ceneri di una sinistra liberal prona al mercato sembra aver scelto nuove strategie di espressione e comunicazione. Le quali hanno disorientato i vecchi sacerdoti, secondo cui i congressi di partito rappresentano una confusa eucarestia dove tutto, in realtà niente, si compie. Che fare? Cercare umilmente di capire quel che davvero là fuori sta accadendo, innanzitutto. «La nostra sola giustificazione, se ne abbiamo una, è di parlare in nome di tutti coloro che non possono farlo», scriveva Albert Camus (1913-1960). In questa società globalizzata e tecnologica, in cui al contrario tutti possono parlare ed esprimere bisogni, un passo avanti per la sinistra che dialoga senza imbarazzi con le politiche liberiste sarebbe individuare chiaramente un popolo che si intenderebbe rappresentare. Se Camus si poneva il problema di giustificare il proprio agire in nome di qualcuno, tanto più medesima preoccupazione se la dovrebbero porre i dirigenti di un Partito democratico, esso sì, probabilmente, in cerca di autore che ne immagini un futuro. Almeno questo.
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