Il parere espresso recentemente dal Comitato nazionale di bioetica può legittimamente essere interpretato come un passo avanti nel tortuoso percorso etico-giuridico verso l’autodeterminazione del fine vita. Una questione al momento irrisolta, l’aiuto al suicidio, sulla quale si espressero la Corte costituzionale e la Corte di Assise di Milano sulla scorta del clamore suscitato dal caso Cappato, ex europarlamentare radicale e promotore del Congresso mondiale per la libertà di ricerca e della campagna Eutanasia legale. E’ noto, Cappato accompagnò il malato tetraplegico Fabiano Antoniani in Svizzera per porre volontariamente fine alla vita tra le mura della clinica Dignitas di Zurigo. Era il febbraio 2017. Lo scorso 18 luglio il Comitato nazionale per la bioetica «dando seguito al proprio mandato di incentivare la discussione pubblica su tematiche etiche e di offrire una consulenza alle decisioni politiche», ha ritenuto «necessario» esprimersi, consapevole «di rilevare orientamenti difformi». Tematica complicatissima, che evoca quel «diritto alla morte» solo per alcuni lecito. Il parere, al di là delle singole posizioni, rinnova l’appello al mondo politico per definire questioni centrali nel dibattito, come la sostanziale differenza tra assistenza medica al suicidio ed eutanasia. Ed anche come realizzare la volontà del malato, considerato il quadro normativo di riferimento, attraverso l’opera di medici e infermieri nella somministrazione delle cure palliative. Il Comitato nazionale di bioetica si è spaccato: 13 voti favorevoli al suicidio medicalmente assistito, 11 contrari. Secondo la maggioranza, «il valore della tutela della vita deve essere bilanciato con altri beni costituzionalmente rilevanti, quali l’autodeterminazione del paziente e la dignità della persona». La minoranza replica che indurre la morte si porrebbe in antitesi con la missione del medico, che è animata da un principio non negoziabile: «l’assoluto rispetto della vita». Una terza posizione espressa dal Comitato appare meno ideologica e più pragmatica. Nell’attuale realtà sanitaria italiana, una scelta di legalizzazione del suicidio medicalmente assistito modellata sulla falsariga di quelle effettuate da alcuni Paesi europei porterebbe a non meglio precisati «concreti rischi». Queste le posizioni. A margine di esse si possono tentare riflessioni circa l’origine della vita, la sua evoluzione, la sua conclusione. Si può definire un’etica esistenziale adottando arbitrari valori di riferimento. Si può anche accogliere la teoria dell’imperscrutabilità di un mistero ad oggi del tutto irrisolto, la cui origine sarebbe, secondo le chiese planetarie, appannaggio di una o più entità trascendenti. O aderire alle varie teorie evoluzionistiche pre e post darwiniste ad essa contrapposte, che negano con argomenti biologici qualunque opzione antiscientifica. Ma ogni pretesa di esaustività appare, se non pretenziosa, almeno velleitaria, nell’assoluta insufficienza di elementi definitivi necessari per avvalorare qualunque tesi. Molto più modestamente, in difetto di qualsivoglia certezza, appare auspicabile concedere la liceità di riconoscere alla vita – intesa come facoltà cognitivo-espressiva di testimoniare volontà – la libertà di esercitare il diritto di sottrarsi ad essa stessa, quando questa – foriera di sofferenze psicofisiche in atto o in fieri – sia destinata a concludersi prematuramente o ritenuta indegna di essere vissuta. Una libertà che anche Dio concesse all’uomo consentendogli di determinare in origine il proprio destino di peccatore. Non si comprende quindi, sul piano strettamente logico-interpretativo dei sacri testi, l’ostracismo cristiano nell’esercizio di una facoltà – la fruizione della piena libertà concessa dal Creatore all’uomo – contemplata e raccontata nella Genesi.
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