Mazreku e il Menabò
Incontrai Roc Jack Mazreku alcuni anni fa nel suo ufficio in porto. Tra le mani avevo una cartella di documenti che lo stesso presidente della Porto di Lavagna spa mi aveva chiesto di mostrargli. Gli interessavano soprattutto le statistiche dei contatti giornalieri di questo giornale e l’elenco degli inserzionisti pubblicitari. Fu un incontro surreale, il cui vivido ricordo si affaccia alla mente ogniqualvolta la sproporzione tra reale e mentale mi confonde le idee. Incontrai Mazreku perché quell’imprenditore balcanico con passaporto americano e residenza in Svizzera voleva comprare il Menabò, fu questo il motivo di un contatto che restò unico. Né prima, né poi mi capitò di stringergli la mano. Una terza persona organizzò l’incontro e mi accompagnò in quella luminosa stanza, un sontuoso ufficio di rappresentanza appeso alle banchine dello scalo turistico più grande del Mediterraneo. Aspettammo una ventina di minuti tra riviste nautiche e stampe a tema sprofondati del divano di una sala che dava accesso a più stanze, dove lavoravano i collaboratori di Mazreku. Poi finalmente la sua porta si aprì e ci invitò ad entrare con rara cortesia. Al solito era elegantissimo e spontaneamente cerimonioso, i suoi modi mi erano del tutto assimilabili all’ampollosità relazionale di taluni telefilm americani. Oltremodo eccentrico, anche in quell’occasione indossava un paio di terrificanti calzini rossi su scarpa modello inglese di ricercata foggia. Il gessato blu portato con invidiabile disinvoltura e il prezioso anello che gli cingeva il dito gli conferivano il piglio del capitano d’industria pronto per un servizio fotografico di Class. Superate le formalità, si rivolse a me. “Ho saputo che vuol vendere il Menabò, sono qui, la ascolto”. Ed in effetti era vero, dopo mesi di quotidiano impegno sul fronte della comunicazione indipendente (dunque condannata a fare i conti con bilanci sempre a rischio default) avevo esaurito le energie nervose e con esse la spinta motivazionale per proseguire. Soprattutto non intravvedevo margini di sviluppo del progetto editoriale, bloccato in una dimensione strutturalmente microbica che mal conciliava il desiderio di realizzare vere inchieste giornalistiche che avrebbero suscitato inevitabili reazioni per le quali sarebbe stato necessario attrezzare un’adeguata controffensiva giuridica che avrebbe richiesto ben altre risorse economiche. Volevo andarmene, dedicarmi ad altro, fare un lungo viaggio senza computer e BlackBerry costantemente on-line. Per questo mi trovavo nell’ufficio di Mazreku, il presidente della Porto di Lavagna si era dichiarato interessato all’acquisto del giornale. Naturalmente non mi sfuggiva l’elemento di estrema contraddizione dell’operazione, un giornale ultra indipendente ceduto ad un chiacchierato imprenditore con interessi in mezzo mondo finiti al centro di questioni giudiziarie in corso di definizione. L’unica condizione che avanzai a Mazreku fu che si dovesse cercare un altro direttore responsabile, perché non sarebbe stata mia intenzione collaborare a nessuna condizione e in qualunque ruolo. Senza una linea editoriale in continuità con i riferimenti culturali precedenti, il Menabò sarebbe presto diventato – questo pensavo – altra cosa rispetto a quel che era stato fino allora, i lettori lo avrebbero presto capito e avrebbero tratto conclusioni. Lui comprese immediatamente le riserve che nutrivo nei suoi confronti e del mondo che ai miei occhi rappresentava. Si limitò a dire che avrebbe lasciato al nuovo direttore estrema autonomia evitando di interferire nella linea editoriale, riservandosi di adire vie legali contro i suoi stessi nuovi collaboratori qualora la propria persona o i suoi interessi fossero stati oggetto di calunnie sulle pagine di cui sarebbe divenuto proprietario. Alla fine della presentazione del Menabò, illustrati un o dopo l’altro grafici d’accesso al giornale e conti economici, Mazreku mi chiese di avanzare una “ragionevole” proposta d’acquisto. Io espressi una ponderata cifra, somma di denaro che ritenevo congrua all’impegno dedicato allo sviluppo della testata. Luì non batté ciglio, si limitò solo a convertire la quota in vecchie lire. Poi mi congedò anticipandomi che mi avrebbero chiamato per aggiornare la trattativa. Non mi capitò mai più di sentirlo, né lui né i suoi collaboratori, quel contatto restò unico. Nel corso degli anni mi sono convinto che Mazreku non fosse realmente interessato all’acquisto del Menabò, nonostante si fosse fatto preparare dalla segretaria un documentato dossier contenente gli articoli maggiormente critici non solo nei suoi confronti. Colse probabilmente l’occasione di quell’assurda trattativa per comprendere il mondo di quella micro impresa, sospesa tra il desiderio di realizzare un degno giornale d’inchiesta e i limiti strutturali che ne impedivano la realizzazione compiuta.
lPod
Questa mattina ho finito “Venuto al mondo” di Margaret Mazzantini. L’omonimo film, diretto da Sergio Castellitto, l’avevo visto al cinema alcuni mesi fa. Non saprei dire se mi abbia preso più la pellicola o il libro, nel dubbio sono contento di aver goduto entrambi. La storia è una coltellata nell’anima, non può lasciarti indifferente. Certo, la disperata ricerca di un figlio che ossessiona Gemma e Diego costringe i lettori sopraffatti dalla curiosità a bersi d’un fiato la pagina. Ma la forza del plot narrativo sta nella possibilità di adottare, ognuno bussando alla propria sensibilità, qualcuno tra i drammi conficcati nella storia come pungiglioni nella carne. Perfetta la descrizione di Gemma, un’intelligente romana che la vita scaraventa nel puro cinismo ogni qualvolta si affaccia sull’orlo del mondo che le appartiene, la dolciastra borghesia capitolina perduta nei suoi stanchi riti. Ottimo anche Gojko, il poeta bosniaco che la guerra priva di ogni tensione lirica prosciugandone gli occhi, costretti ad una fissità sul male ne trasmuta il carattere. Descritto benissimo anche Giuliano, il colonnello dei carabinieri che diventerà il padre putativo di Pietro, il figlio, di Gemma, nato sotto le granate di una Sarajevo assediata. E’ lui il personaggio positivo del romanzo, solido, generoso e imbranato. Come pure grazie all’autrice sembra aver di fronte le altre figure della storia, la loro miseria, il loro pudore. Tutte hanno fisicità, un peso. Sanno quel che vogliono e come averlo, foss’anche un secchio d’acqua gelata per sciacquarsi le ascelle davanti ai cecchini dentro un’assurda provocazione. Solo Diego, fotografo giramondo, appare alla fine scontato. Sai cosa potrebbe dire, fare. E’ sempre nel cono d’ombra della donna che gli sta in quel momento accanto, quale sia. I suoi gesti sono indotti, riflessi nella vita di qualcun altro. La Mazzantini l’ha voluto bidimensionale, quasi immateriale. L’eroina lo ha reso così, o forse lo sarebbe stato anche solo fumando Diana. Il finale del libro è dolceamaro, ti lascia respirare un po’ dopo cinquecento pagine di angoscia. Bel libro.
lPod
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